Storia dell’Opera: Giuseppe Verdi (1813-1901)

Storia dell’Opera: Giuseppe Verdi (1813-1901)

Quando nel 1848 moriva Donizetti, il giovane Giuseppe Verdi si avviava a consolidare quella fama conquistata non facilmente dopo anni di dura gavetta, quelli da lui stesso definiti “anni di galera”.

Dalla nativa Roncole di Busseto, nei pressi di Parma, Verdi si era spinto verso Milano dove non senza fatica era riuscito a far rappresentare la sua prima opera “Oberto conte di San Bonifacio” (1839). Non fu tuttavia il raggiungimento di un traguardo, poiché solo con il “Nabucco” del 1842 Verdi colse il primo autentico trionfo. Seguono, un anno dopo, “I Lombardi alla prima crociata” quindi “Ernani” (1844), “I due foscari” (1844), “Giovanna d’Arco (1845), “Attila” (1846). È questo il periodo in cui l’attività del musicista si fa caotica, obbligato com’è a fornire opere a getto continuo per far fronte agli impegni assunti con gli impresari. Sono anche le opere che, più o meno direttamente, interpretano musicalmente il risveglio politico del nostro paese nell’ambito di quel Risorgimento che ambiva all’indipendenza nazionale. Ma se la musica di queste opere a volte è stata accusata di “grossolana” superficialità, essa contiene già il germe che darà vita alla futura drammaturgia verdiana. Ne “I due Foscari”, ad esempio, la figura del vecchio doge Foscari, combattuto tra il dovere di uomo di potere e i sentimenti di padre, anticipa il “Simon Boccanegra” e soprattutto quelle figure che saranno tanto care all’universo verdiano. Nel 1847 l’opera “Macbeth” segna il primo incontro di Verdi con il genio di Shakespeare. Verdi s’innamorò delle figure shakespeariane stravolte dalla passione: come Macbeth e Lady. La stesura del libretto venne affidata a Francesco Maria Piave, sempre attento agli ordini del Maestro. E quindi si coglie un altro importante aspetto dell’arte verdiana: la cura quasi maniacale del testo, sul quale Verdi interveniva continuamente fino al raggiungimento dell’effetto desiderato. Non a caso Verdi ritornerà nuovamente al “Macbeth” nel 1865, approntandovi importanti cambiamenti. Se la produzione successiva al “Macbeth” ha esiti alquanto alterni, “I masnadieri” (1847), “Il corsaro” (1848) e “La battaglia di Legnano” (1849) forse risentono ancora di una certa fretta compositiva. Dopo il rovente patriottismo de “La battaglia di Legnano”, Verdi sembra volersi concedere un momento di pausa, ormai è un compositore affermato: si può dire il più importante operista dopo la morte di Donizetti, avvenuta nel 1848. Da questo momento in poi il Maestro è la figura dominante dell’universo operistico italiano e vista la posizione ormai raggiunta, ha la possibilità di scegliere i soggetti drammatici a lui più congeniali e di comporre senza il continuo assillo delle commissioni. L’opera che generalmente viene considerata come il punto di partenza del “nuovo” Verdi è “Luisa Miller” (1849). In essa l’orchestra sì è fatta più accurata e più legata alla situazione teatrale, l’urgenza della resa drammatica diventa sempre più evidente esprimendosi attraverso un maggior allontanamento dagli schemi tradizionali delle cosiddette “forme chiuse”. A questo riguardo l’aria di Luisa, “Tu, puniscimi, Signore!”, è un canto immediato, sgorga dall’anima della protagonista e non abbisogna di un recitativo preparatorio. Lo stesso ultimo atto vuole sfuggire ad ogni prevedibile schema: è uno scontro, un concatenarsi delle passioni e delle emozioni dei protagonisti. Rigoletto, Azucena e Violetta sono ormai vicinissimi! Ed è proprio la splendida trilogia di “Rigoletto”, “Il Trovatore” e “La Traviata” a caratterizzare gli anni che vanno dal 1851 al 1853.

Giuseppe Verdi
Giuseppe Verdi

Sintetizzare l’importanza di queste opere è impresa assai ardua. Già la scelta di un soggetto come “Rigoletto”, tratto dal dramma “Le roi s’amuse” di Victor Hugo, era un fatto quanto mai ardito che rompeva con le convenzioni: ad un tenore, il duca di Mantova, è affidato un ruolo amorale, decisamente negativo. Non certo positivo è anche il personaggio di Rigoletto: un buffone, addirittura gobbo, un uomo assetato di vendetta. Ma a Verdi interessa la psiche umana, scoprire gli aspetti negativi e positivi racchiusi in ogni animo. Un desiderio che il compositore difenderà sempre strenuamente, anche se da questo momento in poi le sue lotte contro i censori saranno una costante . Grandissima è la ricerca del colore orchestrale e soprattutto della parola scenica, di quell’accento che deve essere una prerogativa assoluta dell’interpretazione verdiana. Un colore orchestrale notturno, misterioso è il carattere dominante de “Il trovatore”, ed è in un certo qual modo il colore di Azucena, la zingara, (anche questo un ruolo tutt’altro che convenzionale) il personaggio che tiene le fila dell’intera vicenda. Azucena vive al di fuori della realtà che la circonda, in una sorta di ossessionante delirio evidenziato da Verdi con l’uso di un linguaggio auto convenzionale, nulla che abbia a che fare con il concetto tradizionale di aria. Con “La Traviata” poi Verdi porta sulla scena una storia tristissima, una storia di disfacimento fisico e morale, di oppressione e di immeritata condanna, lo spegnersi straziante di una creatura umana. Se da principio l’opera sconvolse il pubblico veneziano, divenne in seguito, e lo è ancora oggi, una delle opere più amate di tutto il repertorio lirico. L’alone d’amore che scaturisce dalla musica di Verdi, con il quale il compositore ha circondato Violetta in ogni momento dell’opera, fino all’ultima nota, resta per sempre come aforisma musicale, insuperabile ed indimenticabile, crocevia ideale nel quale ciascuno di noi si può ritrovare.

Giuseppe Verdi -i-vespri-siciliani

Seguono poi “I vespri siciliani” (1855), concessione occasionale al gusto del grand-opéra francese, capolavori come “Un ballo in maschera” (1859), “La forza del destino” (1862) e, soprattutto, “Don Carlos” (1867) opera nella quale le ragioni di stato e quelle del privato, alle quali Verdi ha sempre dato una grande importanza, assumono valenze diverse: le passioni, gli ideali che animano i personaggi rimangono delle illusioni. Tutti, da Don Carlos, allo stesso Filippo II, sono impotenti, vittime di loro stessi, di un inutile eroismo o di un amore che hanno appena sfiorato (Elisabetta) o che non hanno neppure avuto la possibilità di vivere (Eboli). La complessa drammaturgia di “Don Carlos” prelude all’intensità espressiva di “Otello”. In “Aida” (1871), una spettacolarità di circostanza (era stata commissionata a Verdi per l’apertura del teatro del Cairo, nell’ambito delle celebrazioni per l’apertura del Canale di Suez) riesce lo stesso a far emergere i drammi dei protagonisti anche qui degli sconfitti, senza nessuna differenza di casta, sia la schiava Aida, o la stessa Amneris, figlia del faraone. Nessuno riesce a realizzare i propri sogni d’amore. Con “Aida” sembra si stia per concludere una carriera eccezionale, ma, dopo un lungo silenzio, nasce “Otello” (1887). Verdi torna a Shakespeare, e vi torna con una straordinaria energia: la musica composta per “Otello” è senz’altro di grande modernità e spesso sì è avanzata l’ipotesi di un accostamento di Verdi al mondo sonoro wagneriano. Ma Verdi mantiene una propria autonomia espressiva: ha un uso assai controllato dei Leitmotiv (motivo conduttore) e sebbene l’orchestra abbia un grandissimo spessore ed una notevole ricchezza timbrica, il primato va sempre al canto, nella più pura tradizione italiana. Le convenzionali suddivisioni in duetti, arie e cabalette separate da recitativi sono ormai state abbandonate. Tutto fluisce continuamente secondo una concezione drammatica fattasi serrata, concisa. Grazie anche alla mirabile caratterizzazione dei personaggi, il legame con la tragedia shakespeariana giunge al culmine in un’incredibile compenetrazione. Dopo aver sondato l’animo umano nei suoi aspetti più dolorosi, Verdi sembra volere ironizzare su se stesso, sul proprio scetticismo, e lo fa attraverso il “Falstaff” (1893). Anche se la risata è velata di malinconia, la commedia ha forse preso il sopravvento sulla tragedia.

 

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