Storia dell’Opera: l’Ottocento con Gioacchino Rossini

Gli albori dell’ottocento italiano: Gioacchino Rossini

 Undicesima Puntata

#Rossini150

Abbiamo visto come alla fine del XVIII sec. e nei primi decenni del XIX sec., Parigi fosse assurta a capitale musicale europea. Nella capitale francese erano transitati molti dei nostri più importanti operisti: da Piccinni, a Salieri, a Cherubini e Spontini. Altri si dividevano tra la Francia e la Germania, come ad esempio il già citato Fernando Paer. Nel frattempo l’Italia sembrava assistere quasi passivamente a quanto avveniva nel resto d’Europa. I primi segni di cambiamento si cominciano a percepire attraverso l’opera di Giovanni Simone Mayr (1763-1845).

ritratto di Giovanni Simone Mayr
Giovanni Simone Mayr

Nativo di Mendorf, in Baviera, Mayr giunse in Italia, e più precisamente a Bergamo nel 1789, dove operava Carlo Lenzi, celebre Maestro di Cappella di Santa Maria Maggiore. Nel 1793 è a Venezia dove esordisce nell’opera. Inizia così un’intensissima attività di compositore che porterà alla nascita di oltre cinquanta opere. Al 1813 risalgono quelli che sono considerati i suoi capolavori: “La rosa rossa e la rosa bianca” e la “Medea in Corinto“. È questo un anno ricco di avvenimenti fondamentali per la storia della musica: inizia l’ascesa di Gioacchino Rossini (1792-1868) che a Venezia presenta il suo “Tancredi“, mentre a Roncole di Busseto nasce Giuseppe Verdi e a Lipsia Richard Wagner. Nelle due opere di Mayr troviamo anche il lavoro di un giovane librettista, l’allora venticinquenne Felice Romani, letterato destinato a diventare celebre anni dopo, quando inizierà a collaborare con Vincenzo Bellini e Gaetano Donizetti. Mayr, musicista tedesco, ma italianizzato, si pone come punto d’incontro fra la tradizione tutta italiana dei Cimarosa e dei Paisiello e quella di Gluck e Mozart. Un linguaggio elegante, quello di Mayr, se vogliamo trattenuto, ma allo stesso modo fondamentale per lo sviluppo dell’opera romantica in Italia. È estremamente moderno il suo uso dell’orchestra, per la cura dei timbri strumentali, in particolare tra gli archi e i fiati. Importante è anche il modo in cui Mayr tratta il canto e soprattutto il coro viene ad assumere una funzione drammatica nuova per l’epoca. Quindi, è giusta l’affermazione che Mayr fu il fondatore a Bergamo di un’importante conservatorio e il promotore delle lezioni caritatevoli di musica aperte ai giovani poveri, e frequentate dal 1806 al 1815 da Gaetano Donizetti.

ritratto di G. Rossini
G. Rossini

Ma il primo Ottocento italiano è dominato dal genio musicale di Gioacchino Rossini . La complessità della figura di Rossini è unica, sospesa com’è tra la storia e l’aneddotica: il musicista pesarese ne esce come proverbiale pigrone, dedito soprattutto al cibo, ma allo stesso tempo compositore dai ritmi frenetici, capace di sfornare un’opera in poche settimane. Formose sono poi le sue battute tramandate da illustri testimoni, uno su tutti Henry Boyle detto Stendhal.

La verità è sicuramente nel mezzo, e, sebbene ridimensionata, non toglie nulla alla grandezza di Rossini. Appassionato studioso di Mozart e Haydn, nonché della tradizione operistica dei Cimarosa e dei Paisiello, Rossini muove i primi passi teatrali tra il 1808 e il 1809 con l’opera “Demetrio e Polibio“, che andò in scena solamente nel 1812. L’opera, pur frenata da un certo accademismo, mostra già un Rossini molto attento all’orchestra, nonché alla costruzione delle situazioni teatrali: duetti, terzetti, scene d’assieme sono molto ben calibrate. Ma è nel genere dell’opera buffa che il giovane Gioacchino raccoglie i primi successi: a partire da “La cambiale di matrimonio” (1810), farsa in un atto nella quale il musicista è già pienamente se stesso. I successivi lavori da “L’inganno felice“, a “La scala di seta“, fino all'”Occasione fa il ladro” e “Il signor Bruschino“, affinano sempre di più il suo personalissimo stile, fatto di un brillante canto fiorito, nonché di una vivacità teatrale ed orchestrale già presente nelle sinfonie d’apertura, con i famosi crescendo rossiniani, quel passaggio, cioè, dal piatto al fortissimo che resterà la sua firma nei secoli.

L’orchestra rossiniana è un’orchestra capace anche di sottolineare perfettamente ogni situazione scenica in totale sintonia con le voci. La grandezza dell’opera comica di Rossini, che conoscerà i suoi vertici nei titoli più acclamati: “L’italiana in Algeri” (1813), “Il barbiere di Siviglia” (1816), “La Cenerentola” (1817), al di là dei pregi strettamente musicali, va vista anche nel modo in cui il compositore affronta il genere buffo. Consapevole della grande tradizione dell’opera buffa napoletana, egli trasforma quelli che erano ormai dei personaggi stereotipati in caratteri umani. Nessuno dei personaggi comici di Rossini è una macchietta, poiché non esiste un’unica angolatura dalla quale osservarli; in essi agiscono sempre i sentimenti, cattivi o buoni che siano. Un po’ come in Mozart, Rossini resta spesso a cavallo tra i generi. La satira è sicuramente una delle armi più affilate del pesarese, ma in molte delle sue opere comiche è evidente anche un aspetto malinconico, se non addirittura drammatico: è il caso de “La Cenerentola” o ancora di più ne “La gazza ladra” (1817), opera che sfiora la tragedia.

Frontespizio Barbiere di Siviglia
Frontespizio Barbiere di Siviglia

Non meno complesso è il rapporto di Rossini con l’opera seria. Anche qui il musicista sembra voler assumere una posizione ambigua. Nel 1813 con la prima rappresentazione del “Tancredi” al Teatro La Fenice di Venezia, Rossini coglieva il primo importante successo nel genere serio. E a tale proposito si smentisce subito anche la tradizionale visione del personaggio Rossini burlone per antonomasia. La sua stessa produzione lo conferma: ventidue opere serie contro quattordici opere buffe. Questo equivoco è sicuramente legato al fatto che solo in anni recenti si è tornati a dare una giusta valutazione al Rossini serio. Il compositore sfuggì sempre alle regole del romanticismo: ne rifiutò il realismo espressivo, sebbene a volte ne accettò gli accenti di fremente lirismo, le immagini patetiche, le struggenti ombreggiature. Il musicista si sente come l’ultimo depositario della grande tradizione dell’opera seria metastasiana. Ma Rossini non va giudicato come un musicista retrò, anzi, spesso precorre i tempi e per la sua modernità a volte non viene compreso: è il caso di quel capolavoro assoluto che è “Ermione” rappresentata senza successo a Napoli nel 1819. La struttura del numero chiuso è sostituita da grandi blocchi drammatico-musicali. Lo si capisce già dalla sinfonia, spezzata da un coro dietro le scene, che ritroveremo all’aprirsi del palcoscenico. L’opera prosegue in un continuo compenetrarsi dei numeri musicali che trova l’apice nel secondo atto, con la grande scena della protagonista, nella quale si inseriscono parti di recitativo ed un corteo nuziale. Se il pubblico napoletano non comprese la grandezza di “Ermione”, il pubblico italiano in genere, non capì nemmeno il “Guglielmo Tell” (1829), ultimo grande lavoro rossiniano. La monumentale partitura, con tutti quei cori, danze e grandi scene d’assieme, che testimoniava la volontà di Rossini di avvicinarsi alla nuova sensibilità romantica, non trovò il gradimento dei nostri teatri per tutto l’Ottocento. La grandezza del nome di Rossini, accanto al quale si stavano per unire i nomi di Bellini, Donizetti e più tardi di Verdi, segna il nuovo grande momento del melodramma in Italia.

Così, accanto a questi mostri sacri, vi è un grande fiorire di operisti. Tra questi merita di essere ricordato Francesco Morlacchi (1784-1841) compositore umbro, Kapellmeister alla Corte di Dresda dove, nel 1816, mise in scena la sua opera più celebre “Il barbiere di Siviglia“, composta sullo stesso libretto utilizzato nel 1782 da Paisiello. Il marchigiano

Nicola Vaccai (1790-1848) è sicuramente un altro dei nomi più acclamati dell’operismo della prima metà dell’Ottocento. Noto anche come didatta di canto, Vaccai conobbe il suo primo significativo successo operistico con “Giulietta e Romeo” (1825), lavoro che rimase a lungo nei repertori dei teatri italiani. La penultima scena della “Giulietta” venne spesso sostituita a quella dei “Capuleti e i Montecchi” di Bellini.

ritratto di Giovanni Pacini
Giovanni Pacini

Oltre un centinaio di opere compongono la produzione del compositore catanese Giovanni Pacini (1796-1867). Compositore instancabile, Pacini seguì ogni evoluzione del melodramma ottocentesco, riuscendo a ritagliarsi una valida posizione tra i grandi della sua epoca e, con grande intuizione teatrale, anticipò il Bellini della “Norma”, con la sua “Sacerdotessa d’Irminsul” (1820) ed anche Verdi con “Giovanna d’Arco” (1830). Se spesso le sue opere sanno di “mestiere”, altre contengono pagine di ottima fattura. I suoi titoli più celebri sono “L’ultimo giorno di Pompei” (1825), “Saffo” (1840) e “Maria Tudor” (1843).

ritratto di Saverio Mercadante
Saverio Mercadante

Accanto a Pacini, per importanza va sicuramente accostato Saverio Mercadante (1795-1870), senza dubbio una delle figure più eminenti del melodramma post-rossiniano. Il musicista di Altamura, cittadina nei pressi di Bari, ha colto il suo più importante successo con l’opera “Il Bravo” del 1839. Questa consacrazione era stata preceduta da opere di altrettanto interesse, “Il giuramento” (1837). “Le due illustri rivali” (1838), “Elena da Feltre” (1838). Nei lavori successivi al “Bravo”, si assiste invece ad un lento ma inesorabile declino, anche se meritano di essere menzionate opere come “La Vestale” “Gli Orazi e Curiazi” (1843) ed il suo ultimo lavoro teatrale, “Virginia” (1866). Il suo tramonto è sicuramente legato anche all’imperiosa ascesa di Giuseppe Verdi, al quale Mercadante, con la sua incessante ricerca drammatica e con la sua ricercatezza nell’uso dell’orchestra, ha dato un importante contributo.

Infine, non si può non parlare del singolare tandem formato dai fratelli napoletani Luigi (1805-1859) e Federico Ricci(1809-1877). Della loro cospicua produzione si ricorda soprattutto un titolo, il melodramma giocoso “Crispino e la comare” (1850).

 

Alla prossima…

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