Il Melodramma nel XVI sec: da Claudio Monteverdi ad Antonio Cesti.

Il Melodramma nel XVI sec: da Claudio Monteverdi ad Antonio Cesti.

 

Puntata Seconda

Proseguiamo l’argomento del precedente articolo, approfondendo il contributo di uno dei compositori cardine nell’evoluzione del Melodramma,  che strutturò una forma più articolata del dramma in musica: Claudio Monteverdi.

Nato a Cremona nel 1567 e morto a Venezia nel 1643, segnò il punto d’inizio dell’opera moderna. Figlio di un medico, iniziò giovanissimo gli studi musicali sotto la guida di M.A.Ingegneri, maestro di cappella nella cattedrale di Cremona. Sin dai primi anni rivelò una capacità di scrittura di partiture per voci che, già all’età di soli vent’anni, diventarono veri e propri Madrigali Spirituali (a 4 voci). Nel 1587 pubblicò il suo primo libro di Madrigali a cinque voci, composizioni che resero famoso il suo nome in tutta Europa. Alla corte del Duca di Mantova, amante delle arti e della letteratura, Monteverdi si esibiva nell’orchestra del Duca come violista e cantore, ed essendo il ducato un centro culturale importante dell’epoca, ebbe modo di conoscere letterati e musicisti importanti per la sua formazione, quali G. de Vert e A. Striggio.

Il Melodramma nel XVI sec: da Claudio Monteverdi ad Antonio Cesti.
Claudio Monteverdi-ritratto

Monteverdi fece tesoro dei consigli di questi ultimi, studiando meticolosamente le opere dei maggiori madrigalisti dell’epoca (Marenzio, Venosa, Ingegneri), e maturando così un suo personale stile, elaborando idee che lo avrebbero poi portato sulla via della più ardua riforma musicale. Da qui il passo verso nuovi orizzonti fu breve, a seguito delle innovazioni apportate nei Madrigali della maturità, in cui inserì il basso continuo,  che divennero così pezzi accompagnati, ampliando la possibilità di un più elaborato trattamento delle voci. Il cambiamento radicale con lo stile precedente divenne completo con il settimo libro, che reca sul frontespizio il titolo “Concerto“. Esso si compone per lo più di duetti e trii accompagnati, benchè presenti anche un “a solo”, con accompagnamento per nove strumenti, e un balletto, Tirsi e Clori. L’ottavo libro, come il titolo sta ad indicare, si divide in due parti: Madrigali guerrieri e i Madrigali amorosi. La raccolta comprende  anche quelli che vengono definiti “alcuni opuscoli in genere rappresentativo“, come l’oratorio “Il combattimento di Tancredi e Clorinda“, che include, accanto ai due personaggi, anche un narratore, e l’allegorico “Ballo delle ingrate“, destinato ad addolcire il cuore delle dame sorde alle invocazioni dei loro innamorati.

Il Teatro:

Il suo “Orfeo” fu rappresentato il 24 febbraio 1607 in una piccola sala del Palazzo Ducale dei Gonzaga a Mantova davanti ai membri dell’Accademia degli invaghiti, un esiguo e scelto pubblico di intenditori. Nell’ “Orfeo” il recitativo creato dal Peri trova una nuova via espressiva: non è il dialogo, la parola a costituire il punto di partenza per la creazione musicale, ma la scena in se stessa. Per la prima volta tra il personaggio ed il tessuto strumentale si crea una sorta di fusione, di stretta correlazione, ricca delle più varie sfumature espressive, chiedendo un pari impegno esecutivo sia al cantante che allo strumentista. La nuova intensità espressiva appare evidente in tutto il tessuto drammatico dell’opera dove compaiono sempre più ampie sezioni di ariosi, di cori impiegati sia come commento alla vicenda, sia come insieme di personaggi, ma anche di duetti e terzetti. Claudio Monteverdi prosegue il suo percorso con “Arianna” (1608), della quale non rimane che il celebre “Lamento” che commosse fino alle lacrime tutti gli spettatori. Se la fama di “Orfeo” non aveva varcato le mura di Mantova, quella acquisita grazie ad “Arianna”, porta il compositore a Venezia dove verranno alla luce le altre sue opere giunte a noi: “Il ritorno di Ulisse in patria” (1641) e “L’incoronazione di Poppea” (1642). L’evoluzione musicale dall’ “Orfeo” all’ “Incoronazione di Poppea” è più che mai evidente: lo stile madrigalistico ancora presente in “Orfeo” lascia ora definitivamente posto ad un’approfondita caratterizzazione del testo in chiave drammatica. Non a caso l’ “Orfeo” veniva definito una favola in musica, mentre ora troviamo la definizione di dramma in musica.

Il Melodramma nel XVI sec: da Claudio Monteverdi ad Antonio Cesti.
Orfeo di Monteverdi

Monteverdi, ben affiancato dal  librettista Giacomo Badoaro, mostra una particolare attenzione ai caratteri di tutti i personaggi compresi quelli secondari. A questo punto non è azzardato tentare un raffronto tra l’opera di Claudio Monteverdi e quella drammaturgica di William Shakespeare (il musicista nasce solo tre anni dopo Shakespeare)  e, anche se sicuramente tra i due artisti non vi fu alcun rapporto personale, sono molti gli aspetti che li avvicinano. Entrambi manifestano un’attenta conoscenza dell’animo umano e, con una maestria teatrale sicuramente unica, sanno contrapporre felicemente il tragico al giocoso. Quest’ultimo aspetto appare più che mai evidente nelle ultime opere monteverdiane dove, accanto alle tragiche ed aristocratiche passioni di Ottavia, o alle solenni dissertazioni di Seneca, si contrappongono i lascivi giochi amorosi tra Drusilla e Valletto e la popolare filosofia di vita della nutrice di Poppea, Arnalta.

Per la prima volta con “L’incoronazione di Poppea” viene trattato un soggetto storico. Il librettista Gian Francesco Busenello, e soprattutto il potere della musica di Monteverdi, creano un affresco scenico popolato non più da astratti eroi mitologici, ma da personaggi dalla natura quanto mai umana, dominati da sentimenti assai disparati, odio, sete di vendetta, ecc… Dominano quindi le passioni, che svelano la natura fortemente teatrale di questa partitura. Questa nuova teatralità risente di una mutata situazione sociale in virtù della quale la prima esecuzione di quest’opera poté avvenire non più nella sala di un palazzo nobiliare ma in un teatro, il teatro Grimano detto anche dei SS. Giovanni e Paolo inaugurato il 20 gennaio del 1639.

Il Melodramma nel XVI sec: da Claudio Monteverdi ad Antonio Cesti.
Libretto dell’Incoronazione di Poppea

L’apertura dei teatri, il primo era stato quello di San Cassiano nel 1637, segna un punto di svolta fondamentale nella storia dell’opera che da “aristocratica” diventa “popolare”, nel senso cioè che a dominare sarà sempre più il gusto del pubblico. E sicuramente al primo posto nel gradimento del pubblico vi sono i cantanti. Così, nella nuova impresa commerciale che si crea con la nascita dei teatri, il budget più consistente sarà investito per ingaggiare i cantanti. Gli attori, che cantavano nell’ “Euridice” del Peri, ora si trasformano in cantanti esecutori di quello che è il “cantar parlando”, la naturale evoluzione del superato “recitar cantando”. Si farà poi sempre più strada l’aria, nuovo mezzo espressivo che diverrà l’elemento dominante della nuova svolta dell’opera.

Accanto all’imponente figura di Claudio Monteverdi vi sono altri compositori che hanno contribuito in modo tutt’altro che secondario al cammino dell’opera, tra questi ricordiamo Marco da Gagliano (1575-1642), autore di un’altra “Dafne” su libretto di Ottavio Rinuccini (lo stesso messo in musica nel 1597 da Jacopo Peri), rappresentata a Mantova del 1608, un anno dopo l’ “Orfeo” di Monteverdi. In quest’opera sono evidenti le influenze monteverdiane soprattutto nell’uso del coro e nel canto vero e proprio, che sempre più si distacca dalla rigidità del recitativo, per abbandonarsi in ampi squarci lirici.

Tra i coevi, a Roma  opera Stefano Landi (1585 -1639) autore de “La morte di Orfeo” (1619), un lavoro che si presenta come tragicommedia pastorale mostrando, così, la sua ambivalenza: forse per la prima volta nella storia dell’opera compaiono scene comiche a contrasto con quelle tragiche. Un altro importante lavoro del  Landi fu il “Sant’Alessio” del 1632, su libretto del cardinale Giulio Rospigliosi, futuro Papa Clemente IX. Rappresentato nel teatro di Palazzo Barberini con le scenografie ideate da Pietro da Cortona, il “Sant’Alessio” si presenta come un lavoro dai connotati che già potremmo definire barocchi: nel solenne incedere delle vicende degli ultimi giorni di vita di Alessio, si aprono ampi affreschi corali, come quello che conclude l’opera, una vera e propria apoteosi sonora paragonabile a quelle che i pittori dipingevano sui soffitti e sulle cupole di palazzi e chiese.

Ancora a Roma troviamo Luigi Rossi (1598 -1653) il quale, diventato celebre in tutta Europa per le sue cantate, venne invitato a Parigi dal cardinale Mazarino per rappresentare un’opera in occasione delle celebrazioni del Carnevale del 1647. Nacque così “Orfeo”, la prima opera italiana rappresentata in Francia. Sono passati quarant’anni dall’ “Orfeo” di Monteverdi ed ora questa nuova trasposizione in musica del mito di Orfeo è pienamente barocca e servirà da modello per le opere di Lully in Francia e per Francesco Cavalli e Antonio Cesti in Italia.

Tra gli altri compositori attivi nella seconda metà del Seicento troviamo Antonio Sartorio (1620-1681) autore anch’egli di un “Orfeo” (1672-1673) che, tuttavia, non ha più nulla da spartire con la favola pastorale monteverdiana. Siamo già in presenza di un dramma barocco, dall’intreccio elaborato, con numerosi personaggi, arie virtuosistiche e balletti.

Il bergamasco Giovanni Legrenzi (1626-1660) è invece maestro del genere eroico-comico, cioè della sapiente combinazione di scene drammatiche e comiche.

Negli ultimi anni del secolo troviamo la figura di Alessandro Stradella (1642-1682), compositore di grande personalità, figura tra le più eminenti della sua epoca, ma, allo stesso tempo, uomo dalla vita quanto mai travagliata ed avventurosa, ancora piuttosto oscura. Nella sua breve esistenza (morì in modo violento a Genova, ucciso dai sicari di un suo rivale in amore) ha composto le opere “La forza d’amor paterno” (1678) e “Il trespolo tutore” (1679 ).

Il Melodramma nel XVI sec: da Claudio Monteverdi ad Antonio Cesti.
Francesco Cavalli

Francesco Cavalli (1602-1676), pseudonimo di Francesco Caletti, è nativo di Crema ma veneziano d’adozione. È infatti nella città lagunare che il Cavalli raggiunse la fama, proseguendo ed ampliando la strada di Claudio Monteverdi del quale fu allievo. Esordisce nel 1639 con l’opera “Teti e Peleo” e con le successive “L’Egisto” (1642), “L’Ormindo” (1644), “La Calisto” (1651) e “Serse” (1654) tanto per citare alcuni dei suoi lavori teatrali più celebri. Si impose per oltre vent’anni come dominatore assoluto delle scene veneziane e non solo; vi sono documenti infatti che attestano la ripresa fuori Venezia di almeno diciotto sue opere. A consacrazione definitiva del nome del compositore, nel 1659 giunge da Parigi l’invito da parte del cardinale Mazarino per comporre un’opera in occasione delle nozze del Re Luigi XIV. Nasce così l’ “Ercole amante”. L’accoglienza non fu delle migliori. Il libretto, in italiano, non era stato tradotto in francese e questo non permise al pubblico di seguire puntualmente le intricate vicende dell’opera. A scapito dell’opera di Cavalli, inoltre, c’era anche la palese avversione dei francesi verso tutto ciò che era italiano, compresa la musica. Cavalli, deluso, rientra in Italia nel maggio del 1662 lasciando campo libero a Lully di diventare il sovrano incontrastato dell’opera della corte di Francia. Nonostante l’insuccesso, l’ “Ercole amante” rappresenta il punto più alto del linguaggio operistico di Cavalli: una costante preoccupazione per la bellezza dello stile mai disgiunta da uno spirito autenticamente drammatico, che si esprime in un recitativo di garante ed emozionante efficacia sfociante nell’aria, espressa attraverso un’eloquenza intimamente espressiva.

Un altro compositore fautore della diffusione dell’opera italiana oltre i confini è sicuramente Pietro Antonio Cesti (1623-1669) che fu il più celebre operista dopo Cavalli. Toscano, di Arezzo, operò a Roma, Firenze e Venezia, venendo quindi a contatto con i maggiori centri teatrali della sua epoca. Fu però attivo anche in Austria, ad Innsbruck e Vienna. Qui, nel 1667, in occasione delle nozze dell’Imperatore, compose l’opera più importante della sua carriera ed una delle più celebri del XVII sec., “Il pomo d’oro”, grandiosa festa teatrale, considerata l’apoteosi del barocco musicale. Nelle altre sue opere più celebri “L’Argia” (1655), “L’Orontea” (1656) e “La Dori” (1657), emergono le caratteristiche peculiari di Cesti: la naturale propensione verso una melodia elegiaca, ricca di grazia, espressa nelle arie sempre più isolate del recitativo, dalle dimensioni piuttosto ampie ed articolate, ed attente all’esibizionismo vocale.

Alla prossima…

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Orontea

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